Febbraio 1999
Ci rechiamo in Senegal con l’intento di fare un giro in Mali lungo ma non difficile, trovandoci soli a doverlo fare e quindi non in condizioni di potere rischiare più di tanto.
Non essendoci l’ambasciata del Mali in Italia decidiamo di richiedere i visti a Dakar. L’ambasciata si trova proprio di fronte alla Cattedrale.
In due giorni riusciamo ad avere i nostri passaporti vistati e partiamo in direzione di Tambacunda su una strada asfaltata con diverse buche.
In cinque ore siamo a Tamba, all’ora di pranzo. Ci ricordiamo di un ristorantino che prepara delle brochette con patatine da urlo e ci rimpinziamo prima di proseguire verso il confine col Mali che dista circa 180 Km. Risolviamo un piccolo problema col radiatore del Toyota e partiamo. La pista è molto grande e ben mantenuta. Ci fermiamo a Goudiri in un campement in costruzione dove i muratori ci mettono a disposizione un bel bungalow mai utilizzato. La gente del posto è molto simpatica e disponibile. Il mattino dopo ripartiamo di buon’ora e arriviamo al confine dove espletiamo le formalità di uscita prima in Senegal e poi di entrata in Mali. Perdiamo circa un’ora e mezza. Subito dopo il confine ci rendiamo conto che il Mali è decisamente più povero. Ce ne accorgiamo dai villaggi che sono costruiti quasi esclusivamente con mattoni di fango e sterco e intonacati con lo stesso materiale, anche se fatti con una buona cura, tanto da rendere l’insieme piacevole e ben integrato con l’ambiente che li circonda. La nostra direzione è Kayes che dista una novantina di Km percorrendo una pista abbastanza buona che attraversa una zona ricca di grossi baobab e una moltitudine di uccelli coloratissimi e molto eleganti.
Arriviamo a Kaies, città polverosa e decadente, nell’indifferenza generale, tipica di gente che ha ben altro a cui pensare che stupirsi e ammirare i potenti mezzi degli occidentali ! La città si affaccia sul fiume Senegal e qui le sue rive sono molto animate, come succede sempre in Africa dove c’è un corso d’acqua: donne che si lavano nude o seminude incuranti di chi potrebbe vederle, altre che lavano vestiti, piatti e pentole, altre che addirittura preparano sul posto il loro frugale pasto. Insomma , è lì che si svolge la vita ! Prima di prendere la pista per Nioro, espletiamo le formalità di polizia e di dogana all’uscita della città e partiamo entusiasti.
In realtà la pista si rivela molto accidentata e poco piacevole. Anche l’ambiente che ci circonda non è bellissimo, anche se ha il fascino della terra di Sahel, quella che lotta disperatamente ogni giorno contro l’avanzata del deserto. A metà tra Kaies e Nioro decidiamo di prendere una scorciatoia, che da Sandarè arriva a Diéma. Tutta questa zona è molto carina, con villaggi rurali molto belli e tranquilli, fuori dai circuiti turistici. Nell’ultimo pezzo, 30 o 40 Km prima di Diéma ci troviamo un po’ in difficoltà perché ci si presenta una ramificazione di piste che evidentemente vengono utilizzate dagli agricoltori della zona, per le loro esigenze agricole, che ci confonde le idee. Ben presto dobbiamo affidarci alle indicazioni del GPS, perché sparisce ogni traccia e ci troviamo a guidare in mezzo a sterpaglie e arbusti fino a Diéma dove riprendiamo il pistone che porta a Bamako.
La scorciatoia è quindi sconsigliabile e comporta un allungamento dei tempi di marcia di almeno mezza giornata. La grande pista che ci porta a Bamako è abbastanza buona anche se non priva di tole ondulée e presenta alcuni tratti con grosse buche piene di polvere impalpabile che trae in inganno il guidatore meno smaliziato. Più ci si avvicina alla capitale, più la tole aumenta, tanto che l’unico desiderio possibile è di incontrare l’agognato asfalto, che si fa attendere fino all’arrivo in città .
Ci rendiamo conto che per arrivare lì abbiamo impiegato tre giorni e mezzo e il viaggio vero e proprio deve ancora incominciare. Pranziamo nel ristorantino a ridosso della stazione e, considerando la pista fatta in andata, decidiamo di prendere informazioni per caricare l’auto sul treno, al ritorno, da Bamako a Tambacunda, cosa che ci farebbe risparmiare almeno due giorni sulla tabella di marcia.
Dopo avere scavalcato diverse persone che dicevano di saper dare spiegazioni sul caso, finalmente arriviamo alla persona giusta ( ? ), un certo Pecos, soprannominato così per il suo atteggiarsi alla "cow-boy ".
I prezzi per caricare il mezzo sul treno sono proibitivi, al punto da non potere essere presi in considerazione, quindi abbandoniamo l’idea e ci rassegnamo a rifare il viaggio di ritorno tutto in macchina.
Breve visita al museo etnologico di Bamako, piuttosto interessante, poi subito all’hotel.
Il giorno dopo partiamo abbastanza presto sulla strada asfaltata che attraversa tutto il Mali fino a Gao. Decidiamo di prendere l’asfalto perché pensiamo che, date le distanze veramente notevoli, non ci rimarrebbe poi il tempo per visitare i luoghi più interessanti o peggio ancora, per ritornare in tempo a Dakar, calcolando un giorno o due in più per qualche imprevisto. Il tragitto è molto scorrevole e l’asfalto bello, anche se la strada non è larghissima. Facciamo una sosta per consumare un pasto veloce a Segou, città molto carina, sul Niger, che conserva moltissimi edifici coloniali di buona architettura. Anche dal punto di vista urbanistico, l’insieme risulta piacevole.
Dopo circa 500 Km da Bamako ci fermiamo, nella città di San, dove constatiamo una piccola perdita ad una gomma. Riparatala, cerchiamo un posto per dormire e lo troviamo in città, in un campement modesto ma abbastanza pulito.
Il mattino dopo ci rimettiamo in moto per arrivare a Diennè, città tra le più belle, oserei dire, di tutta l’Africa occidentale, per la sua architettura in stile sudanese e la sua moschea mirabile per la sua imponenza e la sua purezza di stile.
Visitiamo la città nelle ore più calde della giornata e per questo dopo circa due ore siamo esausti, ma complessivamente soddisfatti, consapevoli che quella sosta era necessaria. Ripartiamo nel pomeriggio per arrivare qualche km dopo Kona in una radura semidesertica dove decidiamo di accamparci per la notte. Ci prepariamo psicologicamente al giorno dopo, nel quale contiamo di attraversare per 200 Km il deserto da Douentza a Timbuctù attraverso una pista che non è segnata su nessuna cartina.
Il mattino dopo, giunti a Douentza, chiediamo qualche informazione sul tracciato migliore da fare per arrivare a Timbuctù, perché in ogni stagione questo può cambiare a causa dei ristagni di acqua che si possono trovare sul tragitto che a volte assumono l’aspetto di veri e propri laghi.
In effetti noi ci eravamo preparati per seguire un itinerario completamente diverso da quello indicatoci dagli abitanti del luogo, ma non avevamo scelta, quindi ci siamo fidati; col senno di poi, possiamo dire che la decisione è stata saggia, nonostante la pista, come detto in precedenza, non era segnata sulle mappe IGN. Da segnalare all’inizio del tracciato il panorama splendido fatto di un’immensa distesa di sabbia e qualche acacia qua e là da una parte, e una imponente falesia dall’altra, con un aspetto quasi dolomitico, che in quel luogo ha un tono minaccioso per il contrasto brusco con la circostante pianura.
Si passa proprio alla base di questa falesia, dove sorge un modesto villaggio che a noi pare in perenne pericolo per caduta massi, ma che dal punto di vista degli abitanti deve essere ben protetto dalle tempeste di sabbia che imperversano durante le stagioni degli Harmattan.
Ben presto puntando verso nord si lascia la falesia e il paesaggio diventa
leggermente collinare, dove le colline non sono altro che dune di sabbia ricoperte a tratti da un po’ d’erba e acacie spinose. Nel complesso l’aspetto di questa zona ricorda molto alcuni tratti di Mauritania che in effetti dista poco da lì. Durante il tragitto abbiamo incontrato carovane di cammelli carichi di lastre di sale e anche viandanti solitari, con caratteristiche somatiche del tutto simili a quelle dei Mauri.
Arriviamo verso il tardo pomeriggio sulle sponde del Niger e aspettiamo per quasi tre ore il Bac che ci dovrebbe consentire la traversata del fiume. In quel punto il Niger ha acque poco profonde, quindi la navigabilità è molto compromessa. Arriva il bac e si ferma a qualche metro dalla sponda, noi ci guardiamo e ci chiediamo cosa aspetta ad arrivare a riva, poi giunge il sospetto che siamo noi a dover raggiungere il traghetto, guadando le acque del fiume per poi arrivare sulla rampa che ovviamente è ripidissima, essendo concepita per appoggiarsi ad una sponda. Ovviamente data la lunghezza del nostro mezzo, rimaniamo in bilico tra il piano del Bac e la rampa. Riusciremo a salire solo con l’aiuto di un altro mezzo che era già salito, facendoci trainare.
In quel momento abbiamo pensato che Timbuctù doveva essere molto bello per meritarsi questi sacrifici ! Sul traghetto ci accorgiamo che i motori sono spenti. Ci verrà spiegato che in realtà sono in panne da sei anni !!! Il sistema di trazione non è altro che una piccola piroga a motore, ancorata ad una sponda del traghetto. La traversata è di una lentezza esasperante e impieghiamo due ore e mezzo per arrivare all’altra riva.
Arriviamo sulla terra ferma alle 23 e mancano ancora dieci Km per arrivare a Timbuctù. Sconvolti da una giornata veramente intensa ci infiliamo nel primo albergo che ci viene indicato e ci addormentiamo come sassi. Il mattino dopo, con la lucidità di chi ha riposato, apriamo le finestre per dare una prima occhiata su Timbuctù. Non si vede granchè, l’edificio in cui ci troviamo ha l’aspetto di un’antica fortezza, con muri molto spessi e qualche pregevole elemento architettonico, volti, cortili interni, grandi corridoi …. Il tutto condito dalla solita trascuratezza dell’insieme, dovuto alla scarsa o nulla manutenzione.
Ci apprestiamo a visitare la mitica città, ma ben presto ci rendiamo conto che , a parte la moschea principale e le case ricoperte di blocchi di pietra simile al tufo, e ad una certa omogeneità di tutto l’insieme urbanistico, il mito di Timbuctù vive solo sulla storia che la caratterizza e dall’impegno immane che gli antichi esploratori impiegavano per raggiungerla. Credo che oggi questo venga meno, perché pur non essendo facilmente raggiungibile, l’impresa è fattibile da chiunque possegga un fuoristrada o semplicemente rivolgendosi ad una delle numerose agenzie locali di viaggi.
Non restiamo molto a Timbuctù, il tempo di risolvere un problema alla dinamo dell’auto e ci dirigiamo subito al Bac per il ritorno.
La giornata è molto limpida ma ventosa. I navigatori del traghetto non vogliono partire se non con un sostanzioso supplemento sulla tariffa, che già normalmente è soggetta agli umori momentanei del "capo" che ha in mano la situazione. Dopo lunghe discussioni siamo costretti ad accettare le sue condizioni. Eravamo in quell’occasione in quattro mezzi e una quindicina di persone e per tutto il viaggio ci sono state animatissime discussioni ( al limite della rissa) sull’ingiustizia della tariffa pagata.
Alla fine ci siamo accorti che non era il gestore che aveva deciso il rincaro, bensì un suo tramite che poi avrebbe diviso la torta fra altre tre o quattro persone, storia ricorrente di ordinaria miseria che noi siamo disposti ad accettare, ma i locali che sono nella stessa miseria no.
Il truffatore si decide dunque a distribuire il maltolto e in un attimo si è tutti amici come prima, il fatto e i rancori sono completamente cancellati.
Credo che questa, nel suo piccolo, sia una lezione di vita.
Se fosse così facile in ogni situazione dimenticarsi dei torti subiti, sicuramente il mondo avrebbe meno guerre ! Ma torniamo al viaggio che da ora in poi prende la connotazione di un ritorno, dato che il tempo stringe.
Torniamo per la stessa pista a Douentza dove ritroviamo l’asfalto e decidiamo di accamparci per la notte in un camping nei paraggi.
Il giorno dopo ci risvegliamo e vediamo poco lontano da noi un altro accampamento con un Toyota HJ61 come il nostro. E’ di un italiano, che vive in Togo e organizza viaggi avventurosi nelle regioni più inospitali dell’Africa occidentale. E’ diretto in Burkina Faso e ci insegna una pista per andare a Bandiagara, quindi a Mopti evitando l’asfalto e seguendo in pratica tutta la falesia dei Dogon. Iniziamo questo tragitto e vediamo i primissimi villaggi Dogon, sicuramente i meno spettacolari, proseguiamo fino al punto in cui si deve salire sulla falesia. Si procede a passo d’uomo e ben presto anche più lentamente per potere superare dei macigni di dimensioni ragguardevoli. Dopo circa un’ora e mezza e pochi metri percorsi, gettiamo la spugna e pensiamo che da qualche parte ci doveva essere un’alternativa a quel tracciato che secondo noi era in disuso da molti anni per impraticabilità. Per noi comincia ad essere troppo tardi e torniamo sull’asfalto per raggiungere velocemente Mopti. Breve visita alla città, che vanta una bella posizione vicino al Niger e una notevole moschea di fango in stile sudanese. Peccato che le case che la circondano invece siano in architettura spontanea, per lo più cubiche e decadenti.
Riprendiamo l’asfalto che ci porterà a San dove dormiamo.
Il giorno dopo attraversiamo Segou e, qualche Km più avanti, prendiamo una pista sulla destra che dovrebbe portarci ad alcuni villaggi interni che si trovano tutti sulle sponde del Niger. All’inizio il percorso è ben tracciato e carrozzabile, poi la pista si restringe e diventa sopraelevata rispetto alla campagna circostante, il che fa pensare che durante la stagione umida quella zona è sommersa. L’erosione causata dall’acqua piovana rende la pista a tratti impraticabile e ci troviamo costretti a scendere nelle campagne e a vagare in mezzo alle sterpaglie. Infine riusciamo a volte a costeggiare il fiume, ma ciò risulta molto complicato, perché in realtà il Niger non ha sponde ben definite e soprattutto non ha argini, così quello che si presenta davanti a noi assomiglia più ad una serie di pozzanghere, isolette coltivate, ma niente a che vedere con l’aspetto del grande corso d’acqua. Il tracciato si fa sempre più indefinito e la vegetazione spinosa, sempre più fitta: non vediamo l’ora di raggiungere il villaggio di Tamani, che il GPS ci dice essere vicino, per poi prendere una grande pista che ci riporterà sull’asfalto all’altezza di Fana.
Arrivati lì ci dirigiamo a Bamako e il giorno dopo ripartiamo con l’intento di arrivare a Nioro du Sahel, circa quattrocento Km più a nord su una pista ben tracciata ma totalmente invasa dalla "tole ondulée". Poco prima dell’arrivo a Nioro, uno pneumatico si squarcia. Non ci voleva, anche perché era nuovo, ma si sa che su certi terreni questo è possibile.
Risolto anche quell’inconveniente, arriviamo distrutti a Nioro che è già buio. Andiamo nell’unico campement del villaggio, posto fatiscente e pieno di zanzare e cerchiamo di prendere sonno in mezzo ad una baraonda incredibile… sembra che quello sia un punto di ritrovo per tutto il villaggio.
Il mattino dopo ci preoccupiamo di acquistare uno pneumatico di riserva e ci rendiamo conto che tutti sono intorno a noi per approfittare. In quel posto è molto meglio non avere bisogno di nulla ! Ripartiamo verso Kayes su una pista terribile, si va a passo d’uomo per più di 200 Km attraversando un paesaggio saheliano piacevole, leggermente collinoso quando non addiritura montagnoso, attraversando villaggi piccoli, ma molto animati. Arriviamo a Kayes ancora una volta quando è già buio e, ancora una volta siamo stanchissimi e alla ricerca di un albergo con dei letti veri in cui riposare.
Il mattino dopo partiamo con l’intenzione di fare tutta una tirata fino a Yene, dove ci aspetta la nostra casa. È una tappa di 750 Km circa che si svolge senza intoppi di alcun genere con un'unica sosta a Tambacunda per gustare ancora una volta le famose e imbattibili brochette.
La nostra vacanza si conclude con tre giorni di meritato relax sulle spiagge di Yene, 50 Km a sud di Dakar.